Noi metafisici
Non è cosa inventata ieri. Cionondimeno il caso di farlo coscientemente è di data recente, anzi recentissima; è una notizia giunta all’ultima ora, tanto all’ultima ora che non s’ebbe il tempo di passarla nella fucina delle tipografie, di schiaffarla all’ultimo momento tra le ganasce metalliche unte di grassi neri, grondanti di inchiostri indelebili, e pertanto tutti i giornali e le gazzette e le riviste ed i periodici ed i programmi e gli opuscoli annunzianti, plaudenti, criticanti o vilipendenti l’arte nuova passarono innocentemente sotto silenzio un fatto di capitale importanza: la coscienza nell’arte metafisica.
Io qua, anzitutto, provo l’impellente bisogno di spostare le leve ed i conseguenti ingranaggi, di dare macchina indietro e di tornare non ai tempi dei primitivi sdilinquimenti o degli sdilinquimenti dei primitivi che dir si voglia, né di cacciarmi a capofitto, come un Salomone Reinach qualsiasi, nel pathos idiota e biscornuto dei Laocoonti barbuti e delle Niobi isteriche, né meno ancora di fachirizzarmi nell’evocazione olimpiaca di auree età sepolte, tempi loschi in cui Giove, protettor dei fanciullini, calava entro saporosi nuvoloni a visitare il suo crisoelefantino duplicato; voglio retrocedere, dico, lungo il binario dell’arte secolare, e dopo essere passato innanzi le stazioni remote degli “Xoana” (statue primitive), pendants delle statue negre, ultimo béguin dei modernizzanti, fermarmi come un esploratore nelle caverne del troglodito e curiosare davanti alle sagome stecchite dei suoi bisonti, delle sue renne e dei suoi numi idrocefali, intagliati lungo le pareti delle prefate caverne.
Psicologicamente parlando l’arte del troglodito sarebbe un’arte d’impressione, ergo egli sarebbe un artefice impressionista. Ecco dunque che spiritualmente l’arte dei nostri predecessori di ieri, degli ammannitori di cobalto e arancione si trova collegata a quella del lontano abitatore di caverne e non posa maggiormente nella bilancia dei valori spirituali.
Sta il fatto però che un disegno di troglodito c’interessa più di un paesaggio di Pissarro, così come uno xoanon raffigurante Hera, faticosamente intagliato da qualche oscuro isolano dell’epoche preistoriche, c’interessa più di un saggio calligrafico del signor Bistolfi. Ma in questo caso siamo noi che facciamo salir la quota del troglodito e dell’isolano; ché, intrinsecamente, i quattro predetti artefici si valgono e pesano un peso eguale, così che confondendoli ed appiccicandone poscia a caso due per ogni estremità di un’asta in bilico tu avresti l’orizzontale perfetta. Cionondimeno i nostri plus doux sourirs sono ancora per il troglodito e l’isolano. Perché?
Perché in certi punti la nostra psiche complicatissima somiglia alla loro strasemplice. La “logica umana” sogna un limite, una frontiera, una fascia che cinge la pancia del mondo. Il primitivo si trova di qua dalla fascia, il pittore metafisico si trova di là; tutta l’arte logica poscia, presa in blocco con le età classiche, e quelle di decadenza, i primitivismi screzianti la fascia d’intermezzi riposati, l’idiota pretensione dei rinascimenti bolsi, si trova sulla fascia stessa.
Il troglodito non sa disegnare; la sua mente coperchiata di densi strati di tenebre paurose vede il mondo nel fosco crepuscolo d’un incubo; il motivo predominante nel suo animo irto di perché inquietanti è la paura. Il nuovo pittore metafisico sa troppe cose. Sul suo cranio, nel suo cuore, simili a dischi sensibili di cera manosa, troppe cose hanno segnato impronte e richiami e ricordi e vaticini; troppe scritture hanno sciolto il nastro, troppe divinità sono morte e rinate e morte ancora della morte senza risurrezione; egli allora torna a guardare il soffitto e le pareti della sua camera e gli oggetti che lo circondano e gli uomini che passano giù nella via e vede che non sono più quelli della logica di ieri, di oggi e di domani.
Egli non riceve più impressioni, ma scopre, scopre continuamente nuovi aspetti e nuove spettralità. Se l’insieme di tutto questo intricato processo psichico è inquadrato nella serietà senza sorriso dell’animale, del barbaro e del primitivo, pure il suo cuore è giocondo e sereno. Andate le paure. Il paradiso terrestre è risorto.
– L’arte è giunta oggi al suo più alto significato. Lungo fu il cammino e faticoso; cosparso di lacune, epoche feconde di malintesi.
Platone, generalissimo del pompierismo filosofico, relegava l’arte tra le sensazioni della più bassa sensualità. Per lui arte significava piacere volgare, e non pensava il disgraziato che filosoficamente parlando ogni manifestazione umana ha per meta il piacere o la felicità, che dir si voglia. Ciò che egli antepone all’arte: la riflessione e la virtù sono pure sensualità anche quelle in quanto che hanno per meta il raggiungimento della felicità.
Glück, glück! Du die schönste Beute…
… In sul principiare dell’evo medio ecco nascere un altro malinteso, non meno idiota, lanciato da Plotino e dalla sua coorte di masturbatori: l’arte confusa col misticismo e considerata una specie di scala, di funicolare, di trampolo per innalzarsi alla conoscenza del sommo bene.
L’arte fu liberata dai filosofi e dai poeti moderni.
Schopenhauer e Nietzsche per primi insegnarono il profondo significato del non-senso della vita e come tale non-senso potesse venir trasmutato in arte, anzi dovesse costituire l’intimo scheletro d’un’arte veramente nuova, libera e profonda. I buoni artefici nuovi sono dei filosofi che hanno superato la filosofia. Sono tornati di qua; si fermano innanzi i rettangoli delle loro tavole e delle loro pareti poiché hanno superato la contemplazione dell’infinito. Il terribile vuoto scoperto è la stessa insensata e tranquilla bellezza della materia. Rallegriamocene ché tale scoperta è anzitutto gioconda. L’arte nuova è l’arte gioconda per eccellenza. Certo è che nessun artefice avrebbe più di noi il diritto di essere giocondo; poiché in noi il buon umore è il risultato di un ostacolo superato, di una barriera sormontata, pel riflusso d’un’onda inspiegabile, nata su dal mare placido dei dolori e delle gioie umane, ingrossatasi poi via via nei secoli di tutte le scaltrezze e le rarità e il sublime non avvertito, ingrossatasi dico di tutte le giocondità, così come del più terribile serioso che abbia mai corrugato fronte umana.
Ha dell’osservatorio astronomico, dell’ufficio d’intendenza di finanza, della cabina di portolano. Ogni inutilità è soppressa; troneggiano invece certi oggetti che la scempiaggine universale relega tra le inutilità. Poche cose. Quei quadretti e quelle assicelle che all’artefice esperto bastano per costruire l’opera perfetta.
Il richiamo nautico che suggerisce la sopracitata parola di portolano non è senza un profondo significato per chi intenda penetrare la complicata psiche di questo nuovo pathos (ché il pathos c’è, e più che mai, benché questa volta si tratti di un altro paio di pistole). Le case-pacchebotti sono un’invenzione di noi metafisici (dico noi par délicatesse). Dalle nostre finestre aperte all’albe omeriche ed ai tramonti incinti di domani abbiamo lo spettacolo incoraggiante dei porti, delle officine e di tutti quei quartieri geometrizzati che in certi avanticittà fanno pensare il mare prossimano. L’ululo delle sirene richiamatrici ci rammenta a ore fisse il nostro destino splendido di viaggianti. Nelle nostre camere vengono a cadere sfiniti, dopo i lunghi voli sui mari, gli uccelli sconosciuti di lontane regioni. L’Africa e l’America ci rinvigoriscono di nuovi soffi e tendono telai nel nostro animo in agguato. Ma anzitutto siamo difficili, prudenti e oltremodo pretenziosi ed incontentabili. Così che scartiamo senza pietà qualsiasi specimendi contrada, di epoca, di paese che venga a noi con reputazione già fatta di cosa sfruttata e sfruttabile.
La soppressione del senso logico in arte non è un’invenzione di noi pittori. É giusto riconoscere al polacco Nietzsche il primato di tale scoperta che, sebbene in poesia sia stata applicata per la prima volta dal francese Rimbaud, in pittura il primato dell’applicazione spetta al sottoscritto.
A prima fronte tale osservazione può sembrare aralda d’un che di confuso e di nebuloso ed alle menti di certi semi-intelligenti può far sorgere immagini di scomposizioni e di fantasmagorie cataclismiche; ma ciò non è se si pensa che il cubismo ed il futurismo, i quali producono tali immagini più o meno talentuose secondo la capacità del pittore, non sono però scevri dal senso e che se trasformano e spezzano ed allungano l’aspetto visivo degli esseri e delle cose onde offrire nuove sensazioni e far alitare sulle loro opere un lirismo nuovo, pure non riescono a transumanare le cose rappresentate che pertanto rimangono chiuse entro la cerchia del senso comune.
– Noi metafisici abbiamo santificato la realtà.
L’infinito degli astronomi babilonesi veglianti nel silenzio delle notti estive tra le sfere armillari ed i compassi perfetti sopra i tetti terrazzati di città di cui manco le fondamenta più si vedono frammiste che son’esse alla melma dei fiumi straripanti e alla sabbia spinta su da venti infocati come soffi di divinità giustiziere, quell’infinito, dico, ridotto a sostrato, elencato, catalogato, incasellato segna oggi la sua parabola sul soffitto delle nostre camere, sulle pareti nude dei nostri santi ateliers. Siamo forse divenuti podagrosi per questo? Dobbiamo forse per questo ricorrere alla poltrona complicata (con originale e leggio) dell’orrendo filosofante di Ferney? Tutt’altro, ché più forti siamo e più giocondi, e più pronti a ogni nuova partenza; ma oggi ciascuno di noi è simile a quel fatale navigatore spagnuolo che vedendo alla fine d’un’afosa giornata estiva il vasto Oceano Pacifico apparirgli innanzi capì che il mondo scoperto era veramente “un mondo nuovo” –
Non è facile cosa lo spiegare a degli intellettualoidi confusionari e a dei maschietti di Roma o d’altrove, di cui l’apparato cerebrale non è più complicato di quello d’un mollusco acefalo, il retroscena di quest’arte metafisica che supera in potenza spirituale ed in voluta costruzione pittorica quanto fu fin’ora tentato nelle arti umane. Con ciò non intendo dire che sia mestiere ricorrere a spiegazioni astruse e teorie autoapologetiche, come usa presso i cubisti di Francia e i futuristi d’Italia.
Il genio non può essere giudicato che dal genio.
Verità questa che rimonta di là da Baudelaire l’oppiomane.
La parola “metafisica”, con la quale battezzai la mia pittura sin da quando lavoravo a Parigi negli anni sottili e fecondi dell’avantiguerra, destò pure tra gli intellettualoidi delle rive secuane stizze, malumori e malintesi non trascurabili. La puntata solita, che degenerò poscia in luogo comune, era quella di dire: c’est de la littérature. Frase che faceva pendant a quella lanciata dai cubisti o avanguardisti alle armate dei loro nemici tradizionalisti: c’est pompier; è chiaro che le due accuse si equivalgono e nella maggior parte dei casi servono di egida a chi le sputa in modo da evitargli, almeno in apparenza, di passar per fesso.
In compenso però i difensori non mancarono e primo fra tutti devo citare il mio povero amico Apollinaire che disse già di me: c’est le peintre le plus étonnant de la jeune génération.
La parola “metafisica” fa nascere un mucchio di malintesi, specie in quelle menti stitiche che non avendo lo sforzo salutare della creazione vivono di plagi e di luoghi comuni e spruzzano la loro bile cronica ogni qualvolta gli capita sotto il naso un che che superi la cerchia delle loro capacità intellettive. Alle menti di molti di questi rappresentanti europei della fauna antropoide dell’Africa e dell’America (cercopitechi, semnopitechi, miopitechi) la parola metafisica fa nascere fosche visioni di nuvolaglie e di grigiume, grovigli caotici e masse tenebrose. In Francia il malinteso si estese fino ad attribuire l’invenzione della metafisica ai tedeschi, e ricordo le lotte che ebbi a sostenere per fare accettare il terribile vocabolo che insospettiva anche i più benpensanti.
Ora io nella parola “metafisica” non ci vedo nulla di tenebroso; è la stessa tranquillità ed insensata bellezza della materia che mi appare “metafisica” e tanto più metafisici mi appaiono quegli oggetti che per chiarezza di colore ed esattezza di misure sono agli antipodi di ogni confusione e di ogni nebulosità.
La parola “metafisica” scomponendola potrebbe dar luogo a un altro mastodontico malinteso: “metafisica”, dal greco metà tà fusiká (“dopo le cose fisiche”), farebbe pensare che quelle cose che trovansi dopo le cose fisiche debbano costituire una specie di vuoto nirvanico. Pura imbecillità se si pensa che nello spazio la distanza non esiste e che un inspiegabile stato X può trovarsi tanto di là da un oggetto dipinto, descritto o immaginato, quanto di qua e anzitutto (è precisamente ciò che accade nella mia arte) nell’oggetto stesso.
Ciò che ho tentato in arte nessuno lo tentò prima di me. L’opera mia segna una tappa formidabile nello svolgimento progressivo, nel complicato ingranaggio delle umane arti.
La furberia più terribile che ritorna di là dagli orizzonti inesplorati per fissare nella metafisica esterna, nella terribile solitudine d’un inspiegabile lirismo: un biscotto, l’angolo formato da due pareti, un disegno evocante un che della natura del mondo scimunito e insensato che ci accompagna in questa vita tenebrosa.
L’evocazione spettrale di quegli oggetti che l’imbecillità universale rilega tra le inutilità. E prima di questi lirismi altri ne costruii in Francia; fui il primo che dimostrò la metafisica dell’architettura e delle città italiane. Vi sono quadri di quel periodo in gallerie e collezioni private di Parigi e di Londra, vi sono opere mie sparse in Germania, in America, in Russia; in Italia non ancora; ma forse questo è un buon segno tanto per me quanto per i miei fratelli della penisola.
Veniet felicior aetas, amici; con questa speranza di san Boccadoro io chiudo la mia paternale e tranquillo ritorno alle fatiche mie.
Articolo apparso in “Cronache d’attualità”, Roma, 15 febbraio 1919; ristampato in Giorgio de Chirico, Il meccanismo del pensiero, a cura di M. Fagiolo Dell’Arco, Einaudi, Torino 1985, pp. 66-71; ora in G. de Chirico, Scritti/1 (1911-1945). Romanzi e Scritti critici e teorici, a cura di A. Cortellessa, ed. diretta da A. Bonito Oliva, Bompiani, Milano 2008, pp. 270-276.