Giorgio Morandi
Non siamo un popolo fatto per impinguire nella vita borghese. Il più ricco e soddisfatto dei nostri borghesi ha sempre nell’imo fondo della sua natura qualcosa di più inquieto e scontento del più povero contadino figlio di paesi più nordici e più felici perché meno tepidi e meno chiari.
Che tanta fatale miseria aguzzi la nostra visione del mondo è fatto ormai indiscutibile. L’arte italiana in quello che essa contiene di più scheletricamente bello è cosa dura, pulita e solida. Da tali forme, nude d’ogni infrasconatura, così come d’ogni entusiasmo sfrenato e d’ogni impudica gioia, nasce quello spirito casto, asciutto e di prim’ordine, che della grande pittura nostra, dai primitivi a Raffaello, è il maggior vanto.
Enorme è oggi la confusione che opprime le arti; e la cattiva qualità della pittura che allaga i continenti con torrenti di colore grasso e oleoso, è difficile a definirsi; c’è della sufficienza balorda, molta incoscienza, moltissima banalità, sensualità di cattiva lega e, in quanto allo spirito, tu lo cercheresti invano.
Pertanto è con somma simpatia e con dolcissimo senso di conforto che noi vediamo da qualche anno sorgere, svilupparsi e maturarsi con lenta, faticosa ma pur sicura mente, degli artisti quali Giorgio Morandi.
Egli cerca di ritrovare e di creare tutto da solo: si macina pazientemente i colori e si prepara le tele e guarda intorno a sé gli oggetti che lo circondano, dalla sacra pagnotta, scura e screziata di crepacci come una roccia secolare, alla nitida forma dei bicchieri e delle bottiglie. Egli guarda un gruppo di oggetti sopra un tavolo con l’emozione che scuoteva il cuore al viaggiante della Grecia antica allorquando mirava boschi e valli e monti ritenuti soggiorni di divinità bellissime e sorprendenti.
Egli guarda con l’occhio dell’uomo che crede e l’intimo scheletro di queste cose morte per noi, perché immobili, gli appare nel suo aspetto più consolante: nell’aspetto suo eterno.
Egli partecipa in tal modo del grande lirismo creato dall’ultima profonda arte europea: la metafisica degli oggetti più comuni. Di quelli oggetti che l’abitudine ci ha resi tanto famigliari che noi, per quanto scaltriti nei misteri degli aspetti, spesso guardiamo con l’occhio dell’uomo che guarda e non sa.
Non invano Eraclito d’Efeso disse essere la natura piena di demoni.
Nella sua vecchia Bologna, Giorgio Morandi canta così, italianamente, il canto dei buoni artefici d’Europa.
È povero, ché la generosità degli uomini amanti delle arti plastiche l’ha finora dimenticato. E per poter proseguire nel suo lavoro con purezza, di sera, nelle squallide aule d’una scuola governativa, egli insegna ai giovanetti le eterne leggi del disegno geometrico, base d’ogni grande bellezza e d’ogni profonda malinconia.
Saggio pubblicato nel catalogo della mostra di Valori Plastici La fiorentina primaverile, aprile 1922, pp. 153-4; ristampato in Il meccanismo del pensiero, a cura di M. Fagiolo Dell’Arco, Einaudi, Torino 1985, pp. 236-237; ora in G. de Chirico, Scritti/1 (1911-1945). Romanzi e Scritti critici e teorici, a cura di A. Cortellessa, ed. diretta da A. Bonito Oliva, Bompiani, Milano 2008, pp. 784-785.