Metafisica dell’America
America, caldo umido. Passata la barriera afosa del Gulf Stream si entra in un’atmosfera di bagno di vapore e si sente subito, per reazione, una violenta nostalgia d’asciutto, di tronchi d’olivi toscani ed anche di sigari toscani; questi ultimi poi si desiderano tanto più che tutto il piroscafo è impregnato di quell’odore antipatico di tabacco anglosassone che sa di miele e di fichi secchi.
Un mio compagno di bordo che si recava in California, ove dirigeva una importante ditta per la fabbricazione del falso Chianti e del falso Barolo, aveva più volte parlato dello spettacolo veramente eccezionale che si presenta al viaggiatore quando la nave giunge in vista della città di Nuova York, ed aggiungeva ogni volta: “Purché non ci sia la nebbia!”
È strano, pensavo io, come le persone comuni e di cui il pensiero non è sovente occupato da questioni artistiche, poetiche, spirituali o, comunque, intellettuali, parlino spesso e volentieri delle bellezze della natura o delle città, dei panorami, ecc.; spesso in pensioni ed alberghi che si trovano in luoghi di villeggiatura si vede scritto: «magnifico panorama, splendida vista sul lago», ecc. Io, per conto mio, tanto in campagna quanto in città, non ho mai desiderato, aprendo la mia finestra, di trovarmi davanti ad un «magnifico panorama» o di godermi una «splendida vista» sopra un lago o altra cosa. Per la gran gioia del mio compagno, quando si giunse la nebbia non c’era, e le bianche regolari e geometriche costruzioni di Nuova York apparvero così come le avevo viste tante volte al cinematografo, prima lontane poi più vicine sull’Oceano tranquillo e liscio, simile ad un immenso stagno. Visione di città antichissima, abitata da uomini giunti già lontano in fatto di progresso meccanico. Delle nuvolette di vapore, delle spirali di fumo uscivano dalla cima e dai fianchi dei grattacieli; mi pareva che qualcosa cuocesse o bollisse laggiù, mi pareva come di sentire un ronzio a traverso un vetro, dei rumori vaghi, come un lontano picchiare con bastoni su materassi.
La mancanza di secco in America sta in tutto, non solo nell’aria; non si ode mai un rumore, un colpo secco; ovunque vi è qualcosa d’imbottito. Pare come se anche i metalli ed i corpi più duri siano diventati morbidi, tepidi ed umidicci e, cascando per terra, debbano fare un rumore come d’un corpo molle che urta una superficie molle; le strade, infatti, ed i marciapiedi non sono duri, ed anche gli autobus sono morbidi e le rivoltelle nere dei poliziotti sembran fatte di gomma; conseguentemente, per associazione di idee, si finisce col vedere tutto un po’ deformato e storto poiché si ha sempre l’impressione che qualunque cosa si tocchi, la porta d’un ascensore, il muro d’un grattacielo, la seggiola metallica d’un ristorante automatico, si debba infallantemente creare dei buchi, delle prominenze, lasciare l’impronta della propria mano; se un veicolo si ferma e poi riparte si ha l’impressione che il terreno, là ove è stato fermo, si sia un po’ sprofondato; quando, in seguito agli ingorghi dovuti all’intensissima circolazione, si sciolgono dense agglomerazioni di veicoli e di pedoni, si ha l’impressione che automobili, tranvai, ecc., e uomini, donne e bambini, tornino a circolare e se ne vadano di nuovo per i fatti loro, chi con una gobba, chi con una cavità nella schiena, chi con una tibia raddoppiata, chi con un fianco scavato, ed anche i veicoli sembrano uscire da quella calca deformati con ruote più grosse da una parte che dell’altra, sportelli che rientrano, oppure convessi come i fianchi d’una bombola. E allora tu odi un appena percettibile rumore, un vago rumore sordo, molle, come di immense mani d’un fornaio gigante che lavorasse, mestasse e rimestasse senza posa una pasta morbida, umida ed attaccaticcia.
Tutto ciò concorreva a darmi, sin dal primo giorno del mio arrivo, l’impressione del sogno ed anche di essere un po’ morto. Per uscire da questo sogno, da questa mezzanotte, per svegliarmi, pensavo, devo andare dall’altra parte, devo di nuovo varcare la lunga e calda barriera del Gulf Stream. Ma capita che anche nel sogno talvolta noi sappiamo che sogniamo e ciò ci dà una certa sicurezza ed una gran libertà di movimento (tutto è permesso, pensiamo). Facciamo tante cose, partiamo e torniamo, e quanto non possiamo fare immaginiamo di farlo con più forza che allo stato di veglia.
Passeggiando per le vie di Nuova York m’immaginavo di sollevarmi a volo, di nuotare nell’aria, come si fa in sogno sino ad una certa età, che più tardi è una facoltà che si perde. M’immaginavo di nuotare per aria a ranocchio, alla marinara, coricato sul dorso con il volto riguardante il cielo, l’azzurro e le nubi di giorno, le stelle di notte, come l’Uomo di cui parla Ovidio. M’innalzavo così fino a certi balconi romantici e vertiginosi che sporgevano paurosamente dal fianco d’un edificio all’altezza d’un venticinquesimo piano. Là mi sarei messo a spiare attraverso i vetri sprovvisti di tende e di cortine.
Bisogna notare che in America vi è una avversione per le persiane, le tende, le cortine, i vetri colorati, insomma tutto ciò che può conferire dell’intimità ad un ambiente e far sì che chi ci si trova abbia l’impressione di sentirsi riparato da ogni sguardo indiscreto, da ogni incomodo che potesse venirgli dal difuori. Così spesso di notte gli appartamenti, le camere rischiarate sembrano, viste dalla strada, grandi vetrine di negozi e di bazars. Non ho mai capito perché gli americani e gli anglosassoni in genere, che tanto parlano del home, non sentono questo primordiale bisogno insito nel più umile contadino italiano, di sprangare le porte, chiudere le persiane e tirare le tende quando rientra in casa. La notte, dunque, i grandi appartamenti delle vie del centro, luminosi sul fondo cupo della notte, sembrano vetrine con dentro esposti personaggi eleganti, immobili e sorridenti, ma con i quali tu non potrai parlare mai, né mai loro potranno udire la tua voce e rispondere alle tue domande. Essi vivono di qua e di là del tempo, ma non nel tempo, ed il loro sguardo ed il loro sorriso e tutta l’espressione del loro volto di fantasmi è l’espressione di coloro che sanno che non c’è nulla da sapere. Non hanno mai udito parlare degli ultimi giorni di Pompei né della notte di San Bartolomeo; non sanno che cosa sia una colonna dorica, una macchina a vapore, un campo arato, un ponte di ferro. Non sanno ove essi si trovano né donde tu vieni; non ti possono far capire, parlandoti della prospettiva, le variazioni prospettiche che tu avresti seguendo questa piuttosto che quell’altra regola; essi non possono o, meglio ancora, non devono meditare su tutto quello che li circonda cercando di trarne il remoto linguaggio; sembra che ti dicano senza muovere le labbra né battere ciglio: «Quando avrete imparato ad ascoltare la voce delle cose, allora voi comincerete a saper disegnare». E sembra che ti dicano ancora: «Ricordati che alla brutta parola natura morta, con la quale oggi classifichiamo in pittura la raffigurazione degli animali morti e delle cose inanimate, corrisponde, in un’altra lingua, una parola ben più profonda e vera e ben più gentile e pervasa di poesia: vita silente. Ascoltare, intendere, imparare a esprimere la voce remota delle cose, questa è la strada e la mèta dell’arte». E quando questo muto discorso è finito allora tu li vedi sorridere ineffabilmente guardando le tue tempie, i tuoi zigomi, l’angolo delle tue spalle, le tasche laterali della tua giacca, insomma ti guardano con quello sguardo indeciso che non imbrocca mai il centro dell’essere o dell’oggetto e che oggi si può osservare in molti di quelli che si occupano di pittura, specialmente quando si tratta di pittura moderna, ogniqualvolta essi si trovano di fronte ad un quadro.
A Nuova York il soffio di metafisica più potente si sprigiona dall’architettura; questa è la cosa più sorprendente e, non fosse che per questo, vale la pena di traversare l’Oceano e di soffrire il mal di mare. Negli edifici, nelle case di Nuova York ho trovato ciò che io stesso ho sentito ed espresso in una parte della mia opera di pittore: l’omogeneità e la monumentalità armonica, formata da elementi disparati ed eterogenei. Come nei miei Manichini seduti salgono e s’abbarbicano lungo il tronco dei personaggi sprofondati nelle poltrone o riposanti sopra i plinti e gli sgabelli, marosi immobili, turchini ed incappucciati di schiuma solidificata, acquedotti rovinati, templi chiusi ad ogni liturgia, frammenti di colonne antichissime accoppiati come amici inseparabili in mezzo a terreni spazzati da tanti e poi tanti eventi storici che l’auriga Destino ha guidati con polso fermo ed a briglia tesa, pini marittimi in uno salubri e malefici, alte ogive di tristissimi ospizi e figure araldiche, custodi inesorabili di vecchie fedeltà e di vecchie nostalgie; come nella chiesa di San Marco, a Venezia, tu trovi le screziature, i colori, le curve, le spirali, gli archi ed i circoli di tutti gli stili che insieme formano un blocco compatto ed altamente suggestivo, così nelle costruzioni di Nuova York tu ritrovi il dramma di tutte le costruzioni a traverso gli anni, e c’è la torre medievale ed il cottage inglese, c’è il tempio greco e la chiesa bizantina, c’è l’arco romano ed il castello della Loira, c’è il palazzo fiorentino ed il palazzo veneziano, e tutto ciò attaccato pezzo a pezzo con somma maestria, tirato su, levigato, sfumato, velato, fuso, amalgamato, insomma presentato benissimo che non c’è proprio nulla da dire.
Questo è un lato dell’architettura di Nuova York; c’è poi l’altro lato, quello dell’architettura dei grattacieli o di quegli edifici enormi che, pur non essendo dei veri grattacieli, impressionano per le loro eccezionali proporzioni. È soprattutto su questo secondo lato che passa il soffio enigmatico del pomeriggio d’autunno; serenità nostalgica e nietzschiana delle costruzioni rischiarate dal sole dell’autunno soffuse di quel chiarore di convalescenti che cielo e terra hanno dopo il febbrone dell’estate. Là tu puoi vagare con lo spirito sino alle più alte sfere, sino a quelle sfere ove non sono mai giunti nemmeno quei personaggi poderosi che la storia, ormai e da tempo, ha classificati come giganti del pensiero e di cui tu trovi l’effigie, unitamente ad un pezzo più o meno lungo di biografia, nella parte storica dei dizionari illustrati.
L’albergo Pierre nella Quinta Avenue, in quella larga ed elegantissima strada che segna la frontiera tra la parte est e la parte ovest di Nuova York, è il prototipo di queste costruzioni altamente liriche e metafisiche. Delle vaste terrazze ornate di statue, delle orifiamme dai colori teneri o ardenti e che in cima all’edificio sventolano ai soffi dell’Oceano, conferiscono a quest’albergo tutta l’immensa nostalgia di certe vaste pitture della scuola veneziana, Tintoretto e Veronese; cieli alti ed orizzonti lontani, e l’altra parte del cielo, l’altra parte del mondo che si scorge o si presenta attraverso gli archi o il vuoto degli intercolunnî, a traverso le finestre aperte sull’aere sereno, a traverso le finestre che si trovano sul lato dell’edificio nascosto al tuo sguardo, ma per le quali tu puoi vedere il cielo e le nubi fuggenti poiché esse stanno sulla linea visuale della finestra posta sul lato che ti sta di fronte. Parti di mondo che si presentano dietro i muri alti. E dentro tu sai che l’albergo è pieno di cose belle ed eleganti; tu sai le opere d’arte, le scolture polite, i quadri nelle larghe e belle cornici dorate che ornano e decorano superbamente i vasti saloni e gli ambulacri carichi di stoffe e di grevi tappeti.
Nei pomeriggi di settembre queste nostalgie giungono a tale dolcezza che diventano consolazioni ineffabili, ed allora finalmente riesci a capire il canto solenne ed ermetico dei circoli (intendo dire i clubs) ove schiere di gentiluomini saggi, seduti in splendide poltrone di cuoio, attendono col biglietto in tasca, nei saloni del pianterreno, presso le grandi finestre prospicienti sulle strade brulicanti di veicoli e di pedoni, l’ora della partenza del piroscafo per l’Europa. Già muniti di tutto e con le valige pronte, essi sanno che possono essere tranquilli e felici. Sanno che poco prima, nella farmacia tedesca che sta nel quartiere basso, presso il porto, hanno acquistato tutti i tubetti e le scatole e le scatolette contenenti compresse e pillole contro ogni male, dischetti di sostanze medicinali che rappresentano una garanzia per il viaggio nella densa selva del Futuro sempre piena di mali d’ogni genere e d’ogni sorta. Nelle cartolerie essi hanno acquistato taccuini e lapis col salvapunte, agende e penne stilografiche di lunga durata. Hanno esaminato il loro orologio per vedere se funziona bene e si sentono perfettamente felici, muniti d’ogni cosa, solidi e leggeri. Del resto, quando tutto è pronto e si sa che non si è dimenticato nulla; quando ci sentiamo completamente tranquilli e felici, proviamo più profondamente la gioia della partenza e la nostalgia del distacco. Andiamo a spasso, entriamo nei ristoranti, ci fermiamo davanti alle vetrine dei librai, degli armaioli, dei mercanti di animali imbalsamati. Tutto è pretesto a purissima gioia ed a profondo divertimento; e tutto si fa col sentimento di essere diminuiti di peso; ci sentiamo come dei Mercurî pteropedi a cui ogni passo non costa fatica, che sfiorano il suolo in stato d’impercettibile levitazione, che fuggono rettilineamente come le lepri meccaniche nelle corse di veltri. In simili momenti, in simili pomeriggi quando si sente che si è buttato dietro il sacco greve, la temperatura dell’estate, con i sudori acri e gli odori acidi, con le bucce di cocomero divorate dalle mosche ed il tubetto del termometro dimenticato sul tavolino da notte, e che davanti a noi si aprono le belle prospettive, le speranze delle giornate brevi e delle camere imbottite di tappeti, di quadri, di mobili e di tanti oggetti e tanti ricordi che ci legano al passato e ci empiono l’animo d’ineffabile consolazione, l’alta metafisica di Nuova York ci appare in tutto il suo splendore; ed allora vediamo l’Uomo vestito di pura lana ritto davanti alle vetrine ove dormono stanchi i Dioscuri inseparabili, presso i loro cavalli sfiniti; vediamo l’Uomo vestito di pura lana, calzato con scarpe munite di duplice, triplice e persino quadruplice suolatura, fermo davanti ai muri dietro i quali s’aprono i mari che portano agli altri continenti; vediamo l’Uomo vestito di pura lana, munito di soprabito, d’impermeabile, di berretto a prova di vento, di paracqua e di guanti, camminare, senza speranza e senza paura, tra il Diavolo e la Morte, verso le banchine, là ove fumano i grossi piroscafi neri e donde il richiamo insistente delle sirene sale e sale senza posa sotto il cielo terso più chiaro all’orizzonte e nel quale, simili ad icebergs alla deriva, vogano lente le grandi nubi bianche.
Quando tu guardi la natura in questo strano paese il senso del sogno appare più forte. La differenza con la natura europea non è grande e definita come lo è nell’America del Sud, in certe parti dell’Africa o dell’Asia. Le foglie, gli alberi, le erbe, le piante non hanno quell’aspetto mostruoso, ritorto, gonfio, ipertrofico, tossico, tentacolare, come nel Brasile ad esempio, ma, cionondimeno, sono differenti da quelli dell’Europa, però di poco; sono e non sono quelli; c’è tra loro la differenza e la somiglianza che si nota tra due fratelli o tra l’immagine d’una persona che si vede in sogno e la stessa persona nella realtà.
Per esempio, tu guardi un albero e ti dicono che è una quercia; infatti per terra tu trovi quel frutto tanto suggestivo che è la ghianda, oliva dura incastrata perfettamente nel piccolo ditale di legno tenero, tu trovi, dico, quella ghianda che sin dalla nostra più lontana infanzia ci è sempre stata simpatica come un giocattolo gentile e poetico che si può avere senza rischio né fatica, che non costa nulla e che risveglia in noi biblici ricordi di figliuoli laceri e pentiti che si gettan, soffocati dai singhiozzi, tra le braccia paterne aperte nel gran gesto del perdono. Ma quando alzi lo sguardo e vedi quelle fronde e l’anatomia di quei rami, e quando guardi quel tronco tu senti subito che c’è qualcosa che non va. Allora ti ricordi che sei in un altro mondo e la tristezza scende in te. Le albe ed i tramonti sono come in Europa, eppure tu senti che i raggi di quel sole, che è sempre lo stesso, passano a traverso un’atmosfera diversa, ed ogni giorno sei pervaso da uno strano timore, qualcosa come la paura che un giorno il sole non dovesse tramontare più, che si dovesse arrestare sulla linea fumante dell’orizzonte, disco rosso immobile in mezzo ai vapori salenti dall’acqua e dalla terra.
Le nubi anch’esse sono le stesse eppure tu senti che per essere vere dovrebbero essere altrimenti. Insomma, succede lo stesso fenomeno che si osserva al cinematografo quando si rappresentano film storici. Quando gli attori in costume si muovono in mezzo a veri paesaggi, l’albero, il campo, il monte, qualsiasi pezzo di vera natura sembra falso accanto al personaggio in costume; e più il personaggio è antico più la vera natura vicino a lui sembra falsa. Se si tratta d’un uomo del secolo scorso, di sessanta o settant’anni addietro, il contrasto non è così forte; un personaggio di cent’anni fa accentua già parecchio il fenomeno, che aumenta quando si tratta di personaggi del Sei o del Settecento; con i personaggi del Medioevo è peggio ancora e con i greci ed i romani succede un vero disastro. Ho osservato che in questi casi la discordanza tra personaggio e natura è più forte quando si vedono delle erbe, delle piante e specialmente delle fronde mosse dal vento; si pensa che prima, nei secoli passati, le foglie non si dovevano muovere in quel modo. Tutto cambia invece quando si tratta di paesaggi dipinti, di scenografie; allora tutto sembra vero e naturale. Pertanto io consiglio, tanto ai registi di casa nostra quanto a quelli di fuori, se non vogliono fare cose stonate e poco intelligenti, di non usare nei film storici che scenografie e di evitare più che sia possibile la natura vera.
Quello strano senso di sogno e di inquietudine che alita sopra la natura in America mi spingeva sempre a ricercare gli ambienti chiusi, coperti e riccamente ammobiliati ed addobbati. Così, a Nuova York, mi sentivo molto più al sicuro nelle sale da pranzo del Waldorf Astoria, tra gli stucchi barocchi ed i pannelli pseudotiepoleschi, che per i viali e sotto gli alberi del Central Park o sulle spiagge e gli scogli di Long Island.
Su questa natura strana, in quest’aria rarefatta, in questa luce di serra e d’acquario, passano nei giorni di festa i suoni delle campane di Nuova York; interi concerti, melodie protestantemente dolci, che invitano alla bontà, alla meditazione, alla preghiera. E nei giardini pubblici, durante i pomeriggi di bel tempo, degli strani scoiattoli dal pelo rado e dalla coda anemica saltano come impazziti tra i piedi dei passanti, con una tal fiducia negli uomini che lì per lì si potrebbe pensare che Nuova York e tutta l’America sia abitata da milioni di San Franceschi; scoiattoli vengono a mangiare nelle mani dei bambini, si lasciano accarezzare, tirare la coda; le mamme hanno gli occhi umidi di tenerezza vedendo questi gentili spettacoli. E pure tu sai che se c’è questo c’è anche altro e ti ricordi che poco prima passando accanto ad un’edicola hai visto una magnifica fotografia sulla copertina di un settimanale illustrato, che rappresentava una strada davanti a una banca; dei cadaveri di banditi, uccisi dalla mitraglia della polizia, giacevano coperti con un pezzo di tela chiazzata di sangue, tra le vetture tranviarie e le automobili ferme tutt’intorno, e dei passanti, dei fanciulli simili a quelli che offrono le nocciuole agli scoiattoli, guardavano sorridenti ed incuriositi quei corpi inerti, come avrebbero guardato dei balenotti arenati sopra la spiaggia d’un luogo di villeggiatura.
A Nuova York i cani ed i bambini sono onnipotenti. A forza di essere amati, accarezzati, adulati, pregati, curati, protetti, perdonati, sopportati, ammirati, in tutti i modi e in tutte le maniere, i cani hanno cambiato completamente aspetto; hanno persino un’altra espressione; sono indifferenti, sprezzanti, prepotenti. Se vuoi accarezzare un cane quello brontola e s’allontana e ti puoi considerare fortunato se non ti dà un morso; se il padrone lo chiama quello non viene; se lo invita a giocare con lui, se gli lancia una palla perché la pigli, il cane si siede comodamente per terra, mette il muso tra le zampe anteriori e non si muove più. Anche lo sguardo di quest’animale, tradizionalmente amico dell’uomo, è differente in America; ha qualcosa di annoiato e di distante. I bambini calzano i pattini a rotelle e via come pazzi, con un chiasso infernale, in mezzo ai marciapiedi, per le vie del centro, là ove la folla dei passanti è più densa; passano in volata, a rischio di mandare a gambe per aria un pacifico pedone; delle persone anziane, delle vecchie signore che deambulano con dei bastoni, rabbrividiscono di spavento al passaggio di quei diavoletti di cui alcuni raggiungono un metro e ottanta di lunghezza, ma tutti però si scansano con rispetto e premura, e sorridono con amorosa indulgenza.
In autunno ci sono i periodi delle piogge torrenziali. Il paracqua più resistente, e persino l’impermeabile col cappuccio, non servono a nulla. Nuova York è lavata da capo a fondo; le vie dritte che scendono al fiume si tramutano in torrenti rettilinei, ed il vecchio Hudson si tinge di grigio e sotto le raffiche di vento violentissimo sembra come se entrasse in ebollizione per effetto d’una caldaia sotterranea. Ma dopo questi nubifragi, che portano la notte a mezzogiorno, tornano nel cielo lavato i canti profondi dell’autunno. Di nuovo sulle alte terrazze dell’Hotel Pierre le orifiamme dai colori ardenti o teneri sventolano ai soffi dell’Oceano ed allora tu puoi ascoltare il richiamo della città lontana, della città vogante, della città tranquilla, della città-fantasma, ove giungono, come stanchi uccelli migratori, i ricordi di quel mondo lasciato laggiù, il ricordo di quel vecchio mondo, di là dal vasto mare.
Testo pubblicato in «Omnibus», 8 ottobre 1938; ristampato in Giorgio de Chirico, Il meccanismo del pensiero, a cura di M. Fagiolo Dell’Arco, Einaudi, Torino 1985, pp. 349-356; ora in G. de Chirico, Scritti/1 (1911-1945). Romanzi e Scritti critici e teorici, a cura di A. Cortellessa, ed. diretta da A. Bonito Oliva, Bompiani, Milano 2008 pp. 858-868 e in La Natura secondo de Chirico, catalogo della mostra a cura di A. Bonito Oliva, Palazzo delle Esposizioni, Roma (9 aprile – 11 luglio, 2010), 24 ORE Cultura, Milano 2010, pp. 276-278.