A proposito del dipinto attribuito a Giorgio de Chirico: Composizione metafisica (con freccia), 1914

Il dipinto Composizione metafisica (con freccia), 1914 non solo fu dichiarato falso (falso della peggior specie) da Giorgio de Chirico e oggetto di una vivace polemica con la Tate di Londra [1], ma fu esposto con ingrandimento fotografico, insieme ad altre opere false, in una famosa conferenza stampa che il Maestro tenne nella sua villa di via Misurina nel 1962, come da riproduzioni qui appresso.

 

 

 

Fabio Benzi ha affrontato nella sua fondamentale monografia Giorgio de Chirico. La vita e l’opera, La Nave di Teseo, Milano 2019, sia pure sinteticamente, le problematiche dei cd dipinti abbandonati nello studio di Parigi (pag 289-299), giungendo a conclusioni che, in ispecie per l’opera in discussione, non sono risultate gradite, per intuibili motivi, a Paolo Baldacci che nel numero 2/2020 della rivista telematica Studi on line, pubblicata a fine giugno 2021, non ha perso l’occasione per lasciarsi andare ad uno scomposto attacco contro il prof. Benzi e la Fondazione Giorgio e Isa de Chirico.
La Fondazione ritiene doveroso riportare di seguito la parte inziale dell’articolo di Paolo Baldacci (omesse le note cariche di insulti nei confronti del prof. Fabio Benzi, della defunta prof.ssa Jole de Sanna e della Fondazione Giorgio e Isa de Chirico) e la ferma risposta di Fabio Benzi.

 

Paolo Baldacci. Contributi al Catalogo di Giorgio de Chirico: Composizione metafisica (con freccia), 1914

“Premessa
In un suo recente scritto, Fabio Benzi si è espresso sull’opera di cui parleremo infilando un errore dietro l’altro. Scrive infatti: “Il grande collezionista Doucet […] proprio nel 1925 acquista (probabilmente dallo stesso Breton) un quadro certamente falso, o completamente ridipinto: Composizione metafisica”. Nella pagina accanto, sotto la riproduzione a colori del quadro, si legge la seguente didascalia: “Composizione metafisica, collezione privata. Dipinto falso, forse incompiuto di de Chirico ma successivamente radicalmente contraffatto, dichiarato falso da de Chirico; fu venduto nel 1925 a Doucet”.
Raramente si possono trovare tanti errori in così poche righe. Infatti: 1) il dipinto in questione non è mai appartenuto a Doucet e quindi non può essergli stato venduto da Breton; 2) un dipinto non può essere nello stesso tempo “certamente falso” e “forse incompiuto di de Chirico”: o è falso oppure è un quadro autentico non portato a termine; 3) un professore universitario, cui compete trasmettere ai suoi allievi le elementari regole deontologiche della ricerca scientifica, non può dire di un quadro che è “completamente ridipinto” o “radicalmente contraffatto”, senza aver mai disposto esami tecnico diagnostici in grado di confermare affermazioni così gravi. Il professor Benzi, invece, si dilunga in quelle pagine su un inesistente gruppo di opere “non finite” di de Chirico che sarebbero state comprate da Breton e, a suo dire, fatte terminare o ridipingere da altri, per essere poi esposte nel 1925 nella mostra sulla pittura surrealista alla Galerie Pierre, e si inventa che de Chirico “potrebbe essersene accorto”, così come “non può non aver rilevato” che anche il quadro venduto a Doucet era “certamente falso o completamente ridipinto”. D’altronde – rincara Benzi – “sappiamo che [Breton] non esiterà in seguito a far eseguire, da altri, dipinti falsi con intento puramente venale”. Così si scrive la “Storia” alla maniera del professor Benzi: si può mentire a tutto spiano in barba ai documenti e senza bisogno di fornire prove o citandone di false.
Ma torniamo a noi: 1) Breton vendette a Doucet nel 1925 non il quadro pubblicato da Benzi ma la Composizione metafisica con giocattoli (o Prospettiva con giocattoli), 1914, oggi alla Menil Collection di Houston ; 2) il quadro Composizione metafisica (con freccia) non è mai appartenuto a Doucet ma a Louis Gauthier-Vignal che lo vendette negli anni Trenta a Edward James, come puntualmente ricostruito nel volume di Victoria Noel Johnson, edito dalla Fondazione, che evidentemente Benzi non ha né letto né consultato ; 3) Composizione metafisica appartiene alla collezione milanese di Gerolamo e Roberta Etro, che non mi risulta siano persone abitualmente frequentate da Benzi, ed è stato esposto, prima che il libro di Benzi uscisse, solo nella mostra De Chirico di Palazzo Zabarella a Padova, dal 20 gennaio al 27 maggio 2007, dove il professore in questione – ammesso che l’abbia vista – non ha avuto certo l’opportunità di guardarlo almeno con una lampada di Wood, né tanto meno di fare gli esami necessari a supportare affermazioni tanto gravi quanto gratuite.
Le uniche serie conclusioni che si possono trarre da questa premessa è che Benzi non è un vero storico dell’arte ma assomiglia più a un manipolatore di documenti secondo la propria convenienza, come abbiamo avuto già modo di accertare”.

 

Fabio Benzi. Confermo il mio giudizio negativo sul dipinto attribuito a Giorgio de Chirico: Composizione metafisica (con freccia), 1914

Mi ero solennemente ripromesso che non avrei più risposto a Paolo Baldacci, avendo usato nell’ultima sterile polemica una frase che Giuliano Briganti stesso, esasperato, usò con lui: “Non passo e chiudo”.
Però delle precisazioni servono, oggettivamente, oltre a un medico che convinca quel signore a lasciarmi in pace. Baldacci sembra avere un grave complesso di inferiorità: lui, indotto a lasciare l’insegnamento al grado di associato di Storia antica – da non confondere con Storia dell’arte – (egli sostiene poco credibilmente che voleva lasciar posto ai giovani: in tal modo l’università stessa perderebbe tutti i suoi maestri più qualificati, ed è davvero un’affermazione che suona strana; dunque o lui non si riteneva tale, cioè qualificato, e in tal caso lo capisco e addirittura condivido; o vi erano ragioni contingenti per lasciare l’insegnamento, forse legate al suo discusso mestiere di mercante, ma questo solo lui lo può sapere), non sopporta di vedermi professore ordinario. Ne fa una malattia, si preoccupa per i miei studenti, sembra pazzo quando ne parla. Un aiuto non gli farebbe male.
Mi appello anche ai componenti da lui attirati in un sedicente “comitato scientifico”, affinché lo convincano a farsi aiutare. Consiglierei peraltro, deontologicamente, ai miei colleghi (posto che non ritengo tale il Baldacci) di distaccarsi prudentemente e saggiamente da un contesto così spericolatamente mercantile e rischiosamente compromesso da un processo per dipinti falsi acclarati, come l’associazione da lui formata, costituita in contemporanea al processo e alla condanna a venti mesi di reclusione, inflittagli in primo grado dal Tribunale penale di Milano per consapevole cessioni di dipinti falsi di Giorgio de Chirico (condanna poi annullata per intervenuta prescrizione in grado di appello, ferma restando la confisca delle opere false).

Ma veniamo al punto. Nel mio ultimo libro su Giorgio de Chirico (2019) ho doverosamente dedicato uno dei trentuno capitoli alla questione della rottura con Breton. Diciotto pagine per un argomento che necessiterebbe di un libro. Necessariamente ho dovuto affrontare in maniera stringata un argomento che, come in altri casi, avrei affrontato e affronterò specificamente più avanti nel tempo. Ebbene, ho commesso un errore, che Baldacci mi rimprovera: ho considerato uno dei dipinti che ritengo non autografi come acquisito nel 1925 da Doucet, basandomi su un errore di Baldacci. Infatti, a p. 243 del suo volume, due dipinti che hanno una storia simile (cioè, vengono entrambi, con ogni probabilità, da quello stesso nucleo che io ho identificato come proveniente da una vendita del suo studio nel 1921-22), e sono entrambi problematicamente non attribuibili a de Chirico (non solo secondo me, ma secondo molti altri studiosi), sono pubblicati affiancati. Entrambi non hanno un titolo attribuito da de Chirico stesso, e sono conosciuti con lo stesso titolo generico (Composizione metafisica), entrambi con giocattoli. Baldacci ha invertito le schede, segnando la storia di uno in corrispondenza dell’altro. Come si può vedere dalla foto della pagina relativa.

In realtà avrei potuto citarli entrambi ad esempio di contraffazione dechirichiana “d’epoca”, ma dovevo essere sintetico. Certo, sono stato troppo sbadato a fidarmi di quanto annotava Baldacci, riportando la provenienza senza domandarmi se ci fosse un errore. Come solitamente avviene con Baldacci e come di fatto ero conscio e come ho anche scritto: ma nessuno di noi è perfetto. Conosco bene la storia di quei quadri; nel fare un riscontro ho controllato un libro di Baldacci e ci sono cascato.
Dunque, mea culpa. Il paradosso è che Baldacci accusa me di un suo errore. Tuttavia in questo caso, proprio per l’ambiguità di mettere due dipinti entrambi molto problematici uno accanto all’altro, senza minimamente analizzare quelle problematicità, l’ordine dei fattori miracolosamente non cambia il risultato. Per questo forse ho usato la leggerezza di riprendere una notizia da un libro di Baldacci, cosa come si vede rischiosissima, e da me stesso più volte stigmatizzata: entrambi i dipinti sono segnati nel mio elenco come probabili contraffazioni eseguite su tele originali iniziate da de Chirico e acquistate da Breton nel 1921-22. Giuro che non darò mai più per buona un’indicazione tratta da uno scritto di Baldacci, ponendo questo come metodo scientifico e operativo categorico. Anzi, non leggerò più quello che scrive, che forse è meglio.
Nel 2020, un anno dopo il mio libro, un articolo è stato dedicato da Alice Ensabella a quell’ambiguo episodio de Chirico-Breton, portando ipotesi interessanti ma non definitive, tra cui l’ipotesi che proprio il dipinto da me identificato venisse da quel gruppo bretoniano.
Apprendo da Baldacci, in un articolo ove dichiara autenticissimo il quadro da me e da altri non ritenuto autografo, che egli ha venduto personalmente, tramite la galleria in cui era socio con Philippe Daverio, il dipinto a Girolamo Etro. A Roma si dice di non chiedere mai all’oste se il vino è buono. Ma sono certo che anche in Cina esisterà un adagio del genere, a riprova della profonda saggezza dell’espressione. Baldacci dice che non sono intimo di Etro: è vero, lo stilista l’ho incontrato sporadicamente, ed egli non ha mai avuto il piacere di conoscermi a fondo (quattro chiacchiere a cena non sono una vera conoscenza). Ma il suo quadro, purtroppo l’ho visto esposto, come ne ho visti esposti altri che non ritengo autentici. In Italia, come in Germania (e Baldacci sa di cosa parlo, forse).
In ogni caso rimane un’ambiguità di fondo: i quadri metafisici erano pagati fin dal secondo decennio del Novecento a cifre, se non esorbitanti (neanche Picasso lo era), comunque discrete. Il suo mercante Guillaume si lamenta che durante la guerra de Chirico non gli forniva abbastanza quadri. De Chirico stesso si era portato dietro, dalla Francia in Italia, diversi dipinti. Altri, aveva mandato espressamente la madre a Parigi per recuperarli, destinando quelli che non avrebbe riportato con sé a confidarli in deposito a Guillaume, compresi quelli “non finiti” (parole di de Chirico a Guillaume). Tutto documentato da lettere.
Ma cos’era rimasto in quello studio allora, dopo due traslochi? Erano rimaste delle tele che egli cede a 500 franchi (più o meno 575 euro rapportati al 2019: era un calcolo che feci usando gli strumenti standard elaborati da istituti economici internazionali), mentre solo un anno dopo egli vendeva un unico quadro, per una cifra considerata estremamente conveniente, allo stesso Breton, per 1000 franchi.
Non potevano dunque, quelle del gruppo, essere tele finite, ma probabilmente solo disegnate e predisposte per essere dipinte, o appena accennate (oltre a quelle da tenere in deposito per vendere, “il y en a […] d’autres qui ne sont pas terminés”, scrive l’artista). Solo ciò può spiegare quel prezzo veramente irrisorio: la vendita, in pratica, di “disegni su tela”, o di abbozzi non finiti, che dir si voglia; ossia ciò che rimaneva nel suo vecchio studio parigino dopo due traslochi (il primo di de Chirico, il secondo della madre) e un affidamento di ciò che ulteriormente esisteva di commerciabile a Guillaume. Altrimenti, casomai fossero rimasti dipinti finiti, egli avrebbe potuto incaricare Ungaretti (che si occupò di collocare le tele) semplicemente di rispedirgliele: le avrebbe potute così cedere a Broglio (il suo mercante di allora, che gli comprava i quadri anche metafisici) a una cifra molto più alta rispetto a quegli irrisori 500 franchi.
Altre due osservazioni.
Nell’accurata relazione tecnica commissionata da Baldacci a persone di sua fiducia, manca totalmente l’analisi dei colori. È invece proprio quella che può fornire dati di possibile identità o meno con la stesura pittorica dei quadri originali di de Chirico. Il povero Baldacci, un po’ ignorante di come si guardi veramente un quadro, dice che io ho mai visto l’opera in questione con una lampada di Wood: vero. Mi dispiace per lui, ma non saprei cosa farmene di una lampada di Wood per capire meglio un dipinto come quello. Qualsiasi ridipintura dopo meno di cinquant’anni dalla sua esecuzione è invisibile alla lampada di Wood. Se lo faccia spiegare dai suoi amici tecnici. E inoltre se le tele avevano, come suppongo (e come scrivevo nel mio libro: basta leggere), solo il disegno preparatorio, ed eventualmente qualche parte iniziale di pittura, è chiaro che non ci sarà alcuna disomogeneità nel tessuto pittorico e materico.
Ma i colori, quelli sì, andrebbero confrontati con quelli utilizzati usualmente da de Chirico, ed è possibile farne l’analisi con tecniche non invasive. Qualcuno corrisponderà certo (le tavolozze tra 1914 e 1921 non erano così differenti, e molti colori base erano comunemente utilizzati in ambito parigino), ma sicuramente la composizione dei pigmenti, se confrontata con simili zone di dipinti simili e di analoga altezza cronologica, non corrisponderà pienamente. Ciò si vede anche a occhio nudo: i toni dei colori non sono esattamente quelli dei dipinti conclamati e storici di de Chirico. Attendo i risultati di quelle analisi. Magari li faccia fare lo stesso Etro da qualcuno di sua fiducia, che magari sia indipendente da Baldacci. In Fondazione de Chirico aspettiamo fiduciosi che ci vengano inviati quei risultati. E come sempre li analizzeremo privi di preclusioni (e di isterie).
Ultima osservazione. Baldacci si meraviglia di come io dia per certo che Breton abbia fomentato la falsificazione di dipinti metafisici di de Chirico. Non ha letto il mio libro. Lo capisco perché so di dargli sul sistema nervoso. Tuttavia è una cosa che spiego chiaramente nel cap. 30. L’invasione di falsi ad opera di Oscar Dominguez, negli anni della seconda guerra mondiale e subito successivi, fu denunciato da de Chirico già nel 1946, facendo chiaramente il nome di Dominguez. Baldacci stesso molti anni fa lo identificò come falsario, concordando con de Chirico (ma senza citarlo, lasciando credere che la geniale intuizione fosse una sua scoperta personale di connaisseur), e riconoscendolo autore di un gruppo di opere contraffatte di cui egli stesso ne individuava una in una foto della casa parigina di Eluard del 1940. La questione di tale massiccia elaborazione di falsi, che scoppia in una mostra alla galleria Allard, però, viene curiosamente cavalcata da Breton: che accusa de Chirico di aver fatto eseguire lui i dipinti falsi da un pittore che glielo aveva confessato (in tale circostanza Breton non fa il nome di Dominguez, perché la storia sarebbe risultata davvero paradossale). Sarebbe immediatamente risultato strano a chiunque, in tal caso, che de Chirico utilizzasse un fedele amico di Breton, surrealista, per fare dipinti falsi e per di più in un momento in cui egli non era più in Francia. Per di più (il diavolo, come si sa, fa le pentole ma non i coperchi) uno di questi dipinti era già in casa del più stretto sodale di Breton, Paul Eluard, fin dal 1940, cioè ben prima dello scandalo scoppiato nella mostra della galleria Allard nel 1946. Certo, non abbiamo il filmato che provi che Breton commissiona i dipinti a Dominguez, o il contratto scellerato tra i due (se mai vi fu: cosa improbabile), ma cosa vogliamo di più? Che i dipinti uscissero dalla stretta cerchia di Breton è indubbio. Che quando vengono scoperti, egli accusi de Chirico di averli fatti fare, cercando di allontanare il sospetto da sé e non denunciando l’esecutore (che sostiene, e qui gli crediamo, di conoscere personalmente) anche. Il tipo, Breton intendiamo, anche molto, molto geniale, era fatto così. Univa grandezza e miserie, come la maggior parte dei surrealisti ha testimoniato, in un modo o nell’altro.
Io devo farne la storia. Altri preferiscono farne il mercato.

[1] Cfr: Victoria Noel-Johnson, De Chirico and the United Kingdom (c. 1916-1978), Maretti editore, San Marino 2017, pp. 83; 163-183 e pp. 612-624