Ruggero Savinio, alle frontiere del Tempo
Lorenzo Canova
Ruggero Savinio, scomparso nella notte del 1° gennaio scorso all’età di novant’anni, è stato uno dei maggiori pittori italiani degli ultimi decenni e un intellettuale di incisiva raffinatezza che, nella sua elegante e penetrante qualità di scrittore e di critico ha proseguito, in modo del tutto personale, la grande tradizione della sua famiglia.
Figlio di Alberto Savinio e nipote di Giorgio de Chirico, Ruggero Savinio poteva infatti scomparire all’ombra dei suoi colossi familiari o riservarsi uno spazio epigonico, come molti figli d’arte hanno fatto in passato, ripetendo in modo corretto idee e rappresentazioni ereditate dai genitori e dagli avi.
Ruggero Savinio ha avuto invece la capacità di sviluppare, in autonomia, il profondo legame di Alberto e di Giorgio con Parigi, dove ha vissuto e lavorato e dove ha saputo trovare quei riferimenti che gli hanno permesso di mettere a punto le coordinate della sua opera.
Nella sua lunga carriera è stato quindi invitato alle Biennali di Venezia del 1988 e del 1995, ha tenuto importanti mostre antologiche al Castello Sforzesco di Milano nel 1999, alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna nel 2012 e al Palazzo Reale di Milano nel 2022 e ha scritto libri importanti come il più recente Il senso della pittura (Neri Pozza, 2019).
In questo senso, la pittura di Ruggero Savinio può dialogare, senza subalternità, con le fasi più splendide ed estreme della carriera di Claude Monet e Pierre Bonnard, due visioni diverse, ma affini, di una pennellata che sembra dare forma visiva e tattile a una dilatazione del tempo nello spazio curvato nella dimensione della durata e della memoria.
Ruggero Savinio ha intercettato la densità di quella pittura rimodulandola in una dimensione enigmatica che rappresenta forse il vero elemento di continuità con la storia dei suoi predecessori familiari, in una nietzscheana sospensione tra la luce e le tenebre in cui i frammenti cromatici non costruiscono un’impressionistica celebrazione della percezione.
I suoi quadri si calano dunque in un sostrato più profondo in cui il pittore non insegue le variazioni delle ore e delle stagioni ed esce dal tempo dei cronometri raggiungendo l’equilibrio originario degli archetipi: «la pittura- ha scritto – appartiene a un eterno presente», in un luogo dominato dal sentimento eterno della malinconia abitata dalle ombre.[i]
I bagliori cromatici dell’artista si stagliano infatti su un fondo tenebroso che lo collega al magistero dello zio Giorgio, che gli consigliava di scurire la sua pittura: «è il tratto saturnino che mi ha spinto verso l’oscurità e il disfarsi della materia […]. Se mi volto indietro mi penso come quei “nati sotto Saturno” che nella lieve malinconia e infelicità si sono dedicati, anima e corpo, al farsi dell’immagine. Per abitarla ed esserne abitati». [ii]
Il pittore è riuscito pertanto a trovare il suo indipendente e misterioso “senso della pittura”, su una strada parallela a quella della «metafisica della materia pittorica» teorizzata proprio da Giorgio de Chirico.
Le figure di Ruggero Savinio sono colte così attraverso il coinvolgimento diretto, fisico e mentale nella materia dell’opera, riscoperto nell’attimo che precede la completezza della loro rappresentazione, in un’intersezione dove il colore si addensa nel flusso di un pensiero che affonda le sue radici nelle paludi dell’oblio e dove la pittura stessa si trasforma nel segno ermetico e atemporale di una nuova malinconia per raggiungere e oltrepassare la sponda alle frontiere del Tempo.
[i] Ruggero Savinio, Il senso della pittura, Neri Pozza editore, Vicenza 2019, p. 13.
[ii] Ruggero Savinio, Ruggero Savinio: Io, “figlio di” e “nipote di” ho ereditato le loro ossessioni, intervista con Antonio Gnoli, in «La Repubblica», 31 agosto 2014 (https://www.repubblica.it/cultura/2014/08/31/news/ruggero_savinio_io_figlio_di_e_nipote_di_ho_ereditato_le_loro_ossessioni-94808110/; ultimo accesso 13 gennaio 2025).