Due mostre italiane nel centenario del Surrealismo: de Chirico e altri problemi Giorgio de Chirico: 1924, Torino (Fondazione Accorsi-Ometto); Il Surrealismo e l’Italia, Mamiano di Traversetolo (Fondazione Magnani Rocca)
Fabio Benzi
Il 1924 è stato l’anno del centenario del Surrealismo. Ovviamente Giorgio de Chirico è stato di diritto uno degli ospiti d’onore, talvolta anche un po’ la statua del Commendatore, di tutte le iniziative relative: moltissime nel mondo, come è ovvio.
Vogliamo però accennare qui solo a due mostre, tenutesi in Italia: dove ci si sarebbe aspettati, rispetto ad altri Paesi, un’attenzione più speciale per l’artista che fu l’ispiratore, la musa inquietante, dell’intero movimento.
La prima mostra è quella tenutasi a Torino (Fondazione Accorsi-Ometto), dal titolo quanto mai indicativo e circoscritto, Giorgio de Chirico: 1924, a cura di Victoria Noel-Johnson, catalogo Silvana Editoriale. Sembrerebbe a prima vista l’occasione che finalmente avrebbe analizzato ed esaminato a fondo le implicazioni, le fasi, i movimenti complessi che avendo come epicentro quell’anno fatidico 1924 (che vede de Chirico a stretto contatto con la Centrale Surrealista proprio nel momento della genesi del movimento), sigilla un rapporto inizialmente (1921-1924) devoto, che va rendendosi sempre più complesso (1925-1926), fino a sfociare nella famosa inimicizia con Breton che per decenni sarà la spina nel fianco dell’artista.
Sotto il punto di vista delle opere esposte la scelta appare del tutto casuale e confusa. Si pensi che è esposto un solo dipinto databile al 1924 (Ulisse), che appare una vera e propria stonatura in una mostra intitolata “Giorgio de Chirico: 1924”. Quell’anno fatale per de Chirico, è estremamente complesso per l’elaborazione dei nuovi temi, per il cruciale svolgersi dei rapporti, per l’evoluzione stessa della sua pittura. Di tutto questo nulla compare in mostra. Nel catalogo il rapporto con il Surrealismo, invece di essere esaminato con la complessità del caso (come sembrerebbe suggerito dal titolo), viene individuato seguendo piuttosto la cronaca degli avvenimenti, come ci è indicata dalla pubblicazione delle lettere agli amici surrealisti (soprattutto con Breton e Éluard), ma sostanzialmente ripetendo quanto già noto da bibliografie non sempre adeguatamente compulsate: mancano molti dati, ben ricostruibili da archivi ancora non compulsati, che sarebbe stato utile invece indagare. Mancano peraltro le date definitive della sua permanenza a Parigi (2-29 novembre), che avrebbero permesso di acquisire se non altro un dettaglio importante: le fotografie eseguite da Man Ray della Centrale Surrealista con i suoi adepti, riprodotte sulla copertina del primo numero della rivista “La Révolution Surréaliste” (15 dicembre 1924: in ben due delle tre compare de Chirico), sono stranamente, in catalogo, datate all’ottobre: fatto impossibile, visto che de Chirico ancora non era a Parigi. È strano anche che non abbia invece riportato la data comunemente usata in Francia e nelle pubblicazioni sul Surrealismo (anch’essa sbagliata, peraltro), dove le medesime foto vengono comunemente datate al dicembre. Piccola cosa, si dirà, ma è l’indice di una trascuratezza che si manifesta anche nella mancata analisi di altri più cruciali episodi: gli acquisti dei dipinti metafisici di de Chirico da parte dei surrealisti, ad esempio (quelli noti sono pieni di errori da emendare); l’analisi dei motivi dell’inimicizia che si sviluppa tra de Chirico e Breton; insomma lo spessore dei rapporti. Tra le analisi invece decisamente sbagliate e temerarie, ne va evidenziata una piuttosto grave: l’ipotesi che de Chirico abbia realizzato non una replica (la sua prima in assoluto) delle Muse inquietanti per Breton, come è ormai noto, ma due: la seconda per Éluard: di cui non c’è alcuna traccia neppure ipotetica nei documenti. Quest’opera sarebbe identificata, nel saggio in catalogo, in una tempera evidentemente falsa conservata nella Pinakothek der Moderne di Monaco di Baviera. A questo proposito va detto che la tempera, di uno stile assolutamente incompatibile con quello di de Chirico, si avvicina invece molto alle realizzazioni di Max Ernst dei primi anni venti (medesimi colori opachi), che proprio alla metà degli anni venti eseguì un falso dell’Enigma di un pomeriggio d’autunno, oltre a numerosi disegni metafisici falsi oggi noti.
Le opere in mostra sono peraltro molto belle, tranne alcuni disegni di alquanto dubbia autografia (una Testa mitologica e un Autoritratto con busto di Mercurio) e un dipinto (La mia camera nell’Olimpo) sul quale, prima di essere esposto, sarebbero state necessarie indagini approfondite per chiarirne le stranezze stilistiche e compositive, dovute probabilmente a un dipinto sottostante poi modificato.
La serie di dipinti relativi agli anni 1925-1929 appare di alta qualità (come è ovvio, dato il livello dell’autore), con qualche vecchia datazione che oggi avrebbe dovuto essere aggiornata (ad esempio un Bosco silente dato al 1927 risulta vistosamente estraneo al contesto degli anni venti, e va certamente avanzato agli anni trenta); mentre qualcuna è stata invece modificata, come Gli Argonauti, usualmente e correttamente datato al 1925, che è stato incomprensibilmente spostato al 1926-1927, periodo in cui risulta tecnicamente e pittoricamente decisamente incompatibile.
Il contesto surrealista è invece suggerito solo da una serie di fotografie-ritratto che onestamente risulta scollata dalla mostra, pretestuosa, quasi un “fuori onda” che per essere plausibile avrebbe dovuto comportare confronti appropriati con opere surrealiste: che ci sarebbero, numerosissimi, non solo pittorici e non solo rappresentabili dalle lettere esposte in mostra.
Ma c’era solo quel contesto da analizzare, per de Chirico, in quegli anni? Un’opera straordinaria in mostra, La ciociara del 1925, presenta un topos che sarebbe stato degno di una mostra in sé: il confronto con Picasso (che Cocteau svilupperà ampiamente nella sua monografia su de Chirico del 1928), che è ricchissimo di suggestioni: de Chirico cita Picasso che cita de Chirico, in un gioco di specchi che conferma il dualismo della scena parigina dell’avanguardia di quegli anni. Picasso e de Chirico erano in quel momento correntemente visti come i due colossi dell’arte del XX secolo, le due colonne d’Ercole dell’avanguardia. Persino Breton avrà a scrivere, nel 1923, che de Chirico (più giovane) sarebbe stato “domani quello che Picasso è oggi”.
Insomma, una mostra che prometteva un’apertura critica importante, ma che è rimasta didascalica e illustrativa.
L’altra mostra cui vogliamo accennare, più brevemente, si intitola Il Surrealismo e l’Italia, a cura di Alice Ensabella, Alessandro Nigro e Stefano Roffi (Mamiano di Traversetolo, Fondazione Magnani Rocca, catalogo Dario Cimorelli Editore). Anche qui, un titolo promettente, e un risultato direi modesto, un’occasione sprecata. Quello che abbiamo detto per la mostra precedente, cioè che è un’occasione mancata per approfondire il tema di de Chirico e il Surrealismo, si riconferma. Due dipinti di de Chirico, cinque di Colombotto Rosso: la proporzione dà il segno della confusione progettuale, inusitata per la Fondazione Magnani Rocca. Ma se de Chirico lo vogliamo dare per scontato nell’ambito surrealista, e quindi vi rinunciamo a priori (ma perché?), ci si aspetterebbe di avere una carrellata completa della penetrazione delle idee surrealiste in Italia. Ed è davvero strano che in una mostra che si propone di esplorare l’Italia come campo di diffusione e influenza del movimento, manchino del tutto le prime esperienze degli anni trenta, che evidentemente non sono conosciute dai curatori: ne citiamo alcune esplicite e non minori, come ad esempio Scipione, che dedica una famosa ironica tavola dell’ “Italia Letteraria” (1931) al Surrealismo, senza contare il suo capolavoro Il risveglio della bionda sirena (e molti suoi disegni altrettanto nitidamente ispirati al movimento francese); o l’ex futurista Vinicio Paladini, che esegue nel 1932-34 una serie di splendidi collage ispirati a Max Ernst, nonché una serie di dipinti, a partire dal 1926, decisamente consapevoli del Surrealismo; o ancora Arturo Nathan, e il gruppo della Scuola Romana (Cagli, Capogrossi e Cavalli), responsabili di quel “pasticcio classico surrealista” (Giuseppe Pensabene) che costò agli autori l’anatema del fascismo più oltranzista per l’ “ebraismo internazionalista”; volendo del tutto escludere i molti altri artisti che in modo più ellittico si sono confrontati col movimento di Breton (ad esempio, la compagine degli Italiens de Paris, che includeva non solo de Chirico e Savinio, ma anche Giacometti). E ancora personaggi come la principessa di Bassiano, frequentatrice assidua dei circoli surrealisti fin dagli esordi, collezionista anche di Surrealisti (una parte del catalogo è dedicata alla storia del collezionismo surrealista in Italia), o Bontempelli, o Bragaglia, che sono del tutto elusi dalla trattazione. Solo alcuni esempi, che ci si sarebbe aspettati di vedere in una mostra con un simile titolo e con l’ambizione di rappresentare un tema così interessante per la cultura italiana. E pensando alle donne artiste, penalizzate dal loro genere, oggi argomento così sensibile, vorrei ricordare una dimenticanza significativa in questa mostra che sembra prediligere gli anni del dopoguerra: Manina (Marianne Tischler), dal 1954 naturalizzata veneziana, surrealista straordinaria e oggi quasi dimenticata: a ricostruire la storia servirebbero le mostre…