Canto d’amore di Giorgio de Chirico (1914, New York, The Museum of Modern Art) a cura di Riccardo Dottori
Canto d’amore non è solo uno dei quadri più famosi di de Chirico forse il più bel quadro dell’arte moderna, come dice J. Soby.
In questo dipinto regna sovrana un’assoluta solitudine, in cui sono i segni che parlano, anzi cantano, come ci dice il titolo. Essi però sono in una assoluta discordanza tra loro, tanto che Soby parla anche di una contro-logica della rappresentazione, di un senso di straniamento della realtà che rende difficile interpretarlo.
Vediamo, infatti, la testa enorme di gesso dell’Apollo del Belvedere, attaccato alla parete esterna di un edificio, grande quasi quanto la sua metà.
L’altra metà della parete è occupata, poi, da un guanto di gomma appeso con un chiodo. Perché questo accostamento tra un oggetto casalingo e la bellezza ideale creata dall’artista? Al di sotto della testa c’è un chiodo appeso alla parete che non sostiene nulla. Perché questo chiodo?
Un effetto di ulteriore straniamento è determinato da una sfera verde, posta su un cubo nero, che si trova al di sotto della testa di gesso e del guanto di gomma. La sfera ha delle linee circolari tratteggiate che potrebbero farla sembrare una palla da tennis, una boccia da gioco o rappresentare dei meridiani del globo terrestre.
Tutti e tre gli oggetti formano un triangolo dai vividi colori; ad accentuare la bellezza del loro contrasto concorre il bel verde veronese del cielo. È l’ocra, comunque, il colore della malinconia che ricopre il muro e le arcate sulla sinistra a costituire il colore dello sfondo del quadro su cui brillano poi gli altri colori. L’ocra accorda anche i colori tra loro, mescolandosi in ciascuno di essi: nel bianco del calco, nel verde della sfera e nel rosso del guanto. Rosso che forma con il muro, le arcate sulla destra e il muretto sulla sinistra, quel tipico accordo di ocra e rosso-mattone che vediamo in tutte le tele metafisiche. Lo stesso colore spicca anche nel muretto in basso a sinistra, dietro cui appare il solito treno a vapore con il fumo bianco: il ricordo di suo padre. Che cosa lega tra loro questi segni, quale è il loro senso?
Sappiamo da opere precedenti che il guanto è il segno del destino.
Apollinaire in un articolo del 4 luglio 1914, pubblicato sul «Paris Journal», racconta che de Chirico acquista, degli impressionanti guanti rossi da levatrice. In realtà luglio è il mese del suo compleanno, per cui questo guanto può essere identificato come il segno della sua nascita e del suo destino. Il calco dell’Apollo del Belvedere, contrapposto al guanto, è l’icona della bellezza, il progetto stesso della sua esistenza, proiettata sulla dura realtà: il muro. Nell’espressione estatica del volto di Apollo, il dio degli indovini, scorgiamo lo sguardo trasognato della rivelazione, che per de Chirico è il segreto dell’arte metafisica. Ma Apollo è anche il dio della forma, che in Grecia aveva la sua massima rappresentazione nella scultura.
La sfera verde, il terzo oggetto presente nel dipinto, è il simbolo del gioco cosmico. Essa è posata su un cubo; il cubo per Platone è il simbolo della terra, uno dei quattro elementi dell’universo, accanto all’acqua, l’aria e il fuoco. La terra è, nella forma del cubo, la forza metafisica che sostiene se stessa; nella forma della sfera, sostenuta dal cubo, è la forza cosmica del gioco che, come il gioco del bambino, non ha altri scopi che la gioia del giocare. Questa gioia è la stessa forza cosmica dell’amore, dell’amore per la vita e la bellezza, e di cui l’arte è il canto.
Il significato dell’opera è dunque questo: il guanto della levatrice è la forza del destino che ha portato l’artista sulla terra, inchiodandolo in un punto vuoto del tempo e dello spazio (questo il senso del chiodo vuoto). Il destino che lo ha portato a Parigi per intonare con la sua arte il suo canto d’amore per la vita e la bellezza.
Questa la contro-logica della rappresentazione, che è la logica dell’artista metafisico. Magritte, quando ha visto questo quadro in una rivista d’arte ha pianto dicendo di aver visto rappresentato il pensiero.
Questa forza divinatoria dell’artista è la stessa di Eraclito, tanto spesso citato da de Chirico; egli dice:
“Un bambino che gioca è il tempo [la storia],
che pone qua e là delle pietre miliari,
e fanciullesco è il governo [del tutto].”
Infine, in Agostino lo stesso pensiero:
“[…] il tempo è un fanciullo che gioca sulla riva del mare,
e costruisce castelli che poi di nuovo distrugge.”
Vi è un ultimo motivo nel quadro, ed è quello del colore ocra: nota dominante soffusa su tutti gli altri colori, il colore dell’autunno e della malinconia, che è per lui legata alla figura e al pensiero di Nietzsche.
Le sue due opere fondamentali, La nascita della tragedia dallo spirito della musica, e Così parlò Zarathustra, hanno avuto un influsso enorme su Giorgio de Chirico. Egli capisce che in Così parlò Zarathustra insieme alla massima vitalità, accettazione e volontà di potenziamento della vita si trova anche una profonda malinconia, retaggio del pessimismo greco di cui Nietzsche aveva trattato nella sua prima opera, La nascita della tragedia. Per comprendere questo concetto basta leggere la fine del terzo libro, che è poi anche la fine autentica dell’opera, poiché il quarto libro, aggiunto soltanto nella terza edizione, non apporta nulla di essenziale.
Gli ultimi due capitoli sono intitolati La seconda canzone di danza e Il settimo sigillo (Ovvero: Il canto “sì e amen”).
Nel primo abbiamo un dialogo in due tempi tra Zarathustra e la vita in cui prima Zarathustra professa alla vita tutto l’amore che ha per lei ma anche tutto il suo risentimento per la delusione che ella gli provoca ogni volta che lo incontra.
Nel secondo la vita risponde: «non è vero che mi ami, so infatti che vuoi lasciarmi presto» (un’affermazione da cui si evince il pensiero suicida di Nietzsche); a cui Nietzsche risponde: «sì, ma io so anche […]» e suggerisce soltanto qualcosa all’orecchio della vita che non viene scritto. Questa resta meravigliata e dice: «Tu sai questo Zarathustra? Nessuno lo sa».
Si tratta, naturalmente, del pensiero dell’eterno ritorno dell’uguale. Il pensiero della futura eternità, che viene invocata nel capitolo successivo, non sembra consolare Nietzsche/Zarathustra dal dover lasciare la sua donna, la vita; difatti entrambi si guardano e piangono insieme. Con questa commovente tristezza del pianto termina la scena e Nietzsche aggiunge: «Ma allora la vita mi era più cara di quanto mai non mi fosse stata tutta la mia saggezza». Questo il motivo per cui allora non si suicidò.
Cosa lo consolò poi dal pianto ce lo dice nel capitolo finale: I sette sigilli. (Il canto “sì e amen”), precisamente nell’ultimo paragrafo, il 7, in cui l’uccello “saggezza” dice: «Non sono le parole, tutte, fatte per i grevi? Non mentono tutte le parole per chi è lieve? Canta, non parlare più».
Da questo de Chirico ha tratto il titolo del suo quadro: Il Canto d’amore. Quindi, non le parole ma il canto dell’arte è ciò che ci fa vincere la malinconia e amare ancora la vita. La sua arte, questo dipinto, sono il canto d’amore per la vita e la bellezza. Guardare questo quadro è ascoltare il suo canto.